Léon Bloy, forse l’unico scrittore francese che sia stato dotato di senso dell’umorismo, scrisse che l’uomo moderno ha superato di gran lunga l’apostolo san Tommaso: «La sua ammirevole superiorità consiste infatti nel non crederenemmeno dopo aver visto e toccato. Ma che dico! Nel diventare incapace di vedere e di toccare a furia di non credere».
Questa frase mi è venuta in mente da sola mentre leggevo, per la terza volta nella vita, uno dei libri più divertenti, drammatici e insieme lieti di tutto il triste XX secolo: Il miracolo di padre Malachia di Bruce Marshall, che Jaca Book ha appena ridato alle stampe nella storica, insuperabile traduzione di Gilberto Forti. 
Il mitisssimo padre Malachia Murdoch, «sacerdote dell’ordine di san Benedetto», è stato inviato da Glasgow a Edimburgo perché in una certa parrocchia il molto reverendo canonico Shamus Collins - gran formalista, ma anche vero uomo di fede, che Marshall ritrae in modo esilarante - desidera iniziare il coro locale e i fedeli tutti al canto gregoriano. 
Meno divertente è il ritratto del signor Humphrey Hamilton, brillante pastore della Chiesa protestante episcopale che sta sull’altro lato della strada, di fianco alla sala da ballo “Giardino dell’Eden”: uno di quei cristiani così moderni da aver ridotto il cristianesimo a una morale, Cristo a una leggenda, i miracoli a fanfaluche, ma convinto di avere realizzato in questo modo il vero cristianesimo (svilendo così anche l’aspetto serio e profondo della modernità). 
Con Hamilton, padre Malachia ha una discussione centrata sui miracoli, che si conclude con la promessa (uscita chissà come dalla bocca del povero prete): quella di trasferire il “Giardino dell’Eden” - che Collins considera fonte di massima perdizione - da lì alla cima di un monte non molto lontano. Lascio al lettore il piacere della storia e mi soffermo solo su un punto. Il bizzarro miracolo (che ha luogo prima della metà del libro) impiegherà del tempo a rivelare la sua vera miracolosità: che non è certo il trasferimento di una balera sulla cima di un monte. Il suo senso non è quello di mostrare all’incredula Edimburgo l’onnipotenza del Dio cattolico (Dio non perde tempo con queste baggianate), ma di rivelare, prima di tutto allo stesso padre Malachia, come il miracolo sia il fondamento stesso della realtà - della realtà “normale” - e, quindi, di tutta la ragione umana.
La fede, fondata sulla testimonianza, è un metodo di conoscenza indispensabile per un rapporto razionale con la realtà. Senza di essa non potremmo conoscere niente. Il suo rifiuto rende l’uomo incerto e insieme rigido e arido, proprio come i tanti Humphrey Hamilton che riempiono i giornali col loro dogmatismo (e moralismo) travestito da libero pensiero laico (che laico non è quasi mai). 
«La religione cattolica, monsignore, non è soltanto bella; è anche vera». La sua bellezza ci ha strappato dal nostro nichilismo abitudinario, ci ha spinto a verificare ciò che la persuasività dei testimoni ci aveva già acceso nel cuore. 
La fede mantiene quello che promette al nostro cuore. Essa rende intelligibile, a poco a poco, il fondo della realtà, mostrando il miracolo (ossia l’avvenimento) come radice e regola delle cose quotidiane e normali, mostrandocene l’eccezionalità, come è eccezionale una rosa in un bicchiere, il sorriso di un bambino o la Via Lattea che una sera don Giussani sorprese specchiata nel mare di Varigotti.